Tabucchi è ancora lì a Lisbona, in Portogallo, dove concepisce i suoi personaggi e li lascia crescere. Come pochi altri, in letteratura, riesce a raccontare il momento esatto della trasformazione delle sue creature, le quali finiscono con l’incarnare l’evoluzione interiore di ogni essere umano. O almeno di alcuni. E’ quello che accade ad Io in Requiem, è quello che accade al giornalista Pereira in Sostiene Pereira.
E’ l’agosto del 1938 – a Tabucchi certi avvenimenti piace collocarli nella sofferta calura estiva – in una Lisbona che, come la gran parte del resto del mondo, è sulla soglia della seconda guerra mondiale. Quella di Pereira è “una testimonianza”, un racconto in “tribunale” di come la sua storia di vedovo solitario responsabile della pagina culturale del “Lisboa” si sia intrecciata a quella della Storia con l’incedere di un nazionalismo spinto, di dittature soffocanti, di leggi razziali, ovvero ingiustizie politiche, sociali e culturali. Una strage di umanità.
Pereira è un cronista trentennale a cui non passa inosservato quanto sta accadendo nel suo Paese e nel resto d’Europa, non potrebbe essere diversamente visto l’acume e la sensibilità letteraria coltivata nel tempo, ma è qualcosa che non riesce bene ad inquadrare e che, in un primo momento, preferisce rimanere ad osservare. Il suo giornalismo non deve subire – pensa Pereira – le ingerenze di certi andazzi politici, sennonché dunque culturali: occupandosi di letteratura le cesoie – crede – non dovrebbero avere di che occuparsi.
Pereira mente a se stesso – come abilmente fa chi non vuole ammettere la realtà per comodo o per ragione pretesa – ma la paura è una barriera prepotente, legittima ed invalidante. Con un percorso quasi fisiologico – date certe premesse di materia umana – lento, dettagliato e a tratti doloroso, la maestria di Tabucchi trasforma l’animo e la volontà di Pereira rivendicando il plauso della sfida al timore, attraverso una letteratura che “può diventare – come scrive Paolo Mauri – un modo (forse l’unico) per combattere e sfidare la storia”.
Quel percorso che come pochi altri Tabucchi sa fotografare si sostanzia nella filosofia della “confederazione delle anime”.
“Credere di essere ‘uno’ che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un’illusione, peraltro ingenua, di un’unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perchè noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una conferazione che si pone sotto il controllo di un io egemone. Il dottor Cardoso fece una piccola pausa e poi continuò: quella che viene chiamata la norma, o il nostro essere, o la normalità, è solo un risultato, non una premessa, e dipende dal controllo di un io egemone che si è imposto nella confederazione delle nostre anime; nel caso che sorga un altro io, più forte e più potente, codesto io spodesta l’io egemone e meglio la confederazione, e la preminenza si mantiene fino a quando non viene spodestato a sua volta da un altro io egemone, per un attacco diretto o per una paziente erosione. Forse, conclude il dottor Cardoso, dopo una paziente erosione c’è un io egemone che sta prendendo la testa della confederazione delle sue anime, dottor Pereira, e lei non può farci nulla, può solo eventualmente assecondarlo”.
Una teoria che con tutto il suo carico di tormento fa di Pereira una figura umana non impeccabile ed una letteraria memorabile.