L’appellativo “ritornata” suggerisce che ci sia stato almeno un viaggio d’andata, ma il romanzo di Sandra Di Pietrantonio – L’ Arminuta (Einaudi, 2017) – prende vita proprio dal ritorno. Con una valigia in mano e una sacca di scarpe nell’altra, in quella casa natia che non le appartiene si snoda gran parte di un racconto ossimorico, dove tutto ciò che attiene, anche sul piano emotivo, a ciò che è origine, famiglia di nascista, equivale a quanto di più distante ci sia dalla sua memoria e da quella del cuore.
Quel luogo de L’Arminuta, mesto, “un buio popolato di fiati” più che di cibo e spazio, non appartiene alla tredicenne che ricompare all’improvviso nella vita degli altri così come di punto in bianco quella casa riappariva nella sua. Lei non lo ricordava, certamente era passato troppo tempo da quando qualcuno s’era preso l’impegno di scrivere per lei – e prima ancora per se stessa impossibilitata a spegnere la sua sete di maternità in altro modo – un futuro diverso.
La maternità. Tutto parte dal desiderio di vedere il proprio grembo lievitare, ricorrendo ad una preghiera sempre più profonda sporcata dall’umana blasfemia di chiedersi perchè tante gioie di vita in mezzo a tanta miseria e la sterilità in una dimensione ideale per crescere qualsiasi figlio.
Il punto è che la verità non guarda a quale porta bussa, prima o poi entra dappertuttto.
Così Liliana che, con suo marito, aveva preso ad abitare nella sua casa e nel suo cuore quella piccola creatura, tirandola su come sua, all’improvviso cede al richiamo del suo ego e si “disfa” di quella ragazzina, che ama, ma non può far parte più dei suoi piani.
L’abbandono. Tutto finisce qui: per quella pre-adolescente tolta alla danza, alla piscina, alla scuola e ai suoi arredi puliti e profumati, alle sue consuetudine consolidate. Le uniche che abbia mai conosciuto. Quelli che aveva creduto i suoi genitori l’hanno “restituita” ai suoi veri genitori. Ad una sorella – Adriana – e a diversi fratelli tra cui Vincenzo, il più grande, e Giuseppe il più piccolo. Il punto è che anche loro l’avevano abbandonata. Evidentemente per lei.
Amore e dolore s’intrecciano così, in rarissimi attimi di spensieratezza o pura dolcezza come solo con una sorella – benchè appena “ritrovata” – si possono avere.
“Restavo orfana di due madri viventi. Una mi aveva ceduta con il suo latte ancora sulla lingua, l’altra mi aveva restituita a tredici anni. Ero figlia di separazioni, parentele false o taciute, distanze. Non sapevo più da chi provenivo. In fondo non lo so neanche adesso”.
Scivola così una storia di sentimenti estremi che compiono vorticosi giri di valzer tra l’odio più feroce, il risentimento più ostentato e la fragilità più palese, raccontati anche ricorrendo all’incisività e all’autenticità del dialetto abbruzzese, che se calca alcune distanze relazionali, rende perfettamente il peso della realtà su cui va in frantumi la menzogna, quando bisogna fare i conti con chi si è e da dove si viene.
“sul cuscino mi aspetta ogni sera lo stesso grumo di fantasmi, oscuri terrori”.
Per L’Arminuta è un scontro doloroso. Una rincorsa affannosa di una verità ad interrogativi che prima non si era neanche mai posta, mentre cerca se stessa, una dimensione che le appartenga, un affetto vero che non la tradisca, che non sia intercambiabile. Così nasce la “sorellanza” con la piccola grande Adriana.
“Mia sorella. Come un fiore improbabile, cresciuto su un piccolo grumo di terra attaccato alla roccia. Da lei ho appreso la resistenza. Ora ci somigliamo meno nei tratti, ma è lo stesso il senso che troviamo in questo essere gettate nel mondo. Nella compliticà ci siamo salvate”.