Lo dirò io chi è l’Agnese e questo libro lo fa. Con L’Agnese va a morire ( Einaudi 2014) Renata Viganò non solo traccia il profilo di una donna – Agnese – ma dell’intera Resistenza, in modo efficace e intenso. Una meticolosità descrittiva che rievoca ambienti e stati d’animo di uomini e donne che hanno combattuto per la Liberazione del Paese, in modo compatto, speranzoso e affrontando la paura esattamente come il coraggio che, non di rado, li ha consegnati alla morte. Come Agnese.
Quella donna anziana, non in perfetta forma fisica, prima della morte del marito – Palita – estranea alla politica e alle dinamiche della Seconda Guerra Mondiale, si ritrova a fare l’unica cosa possibile: unirsi ai “compagni” ed agire. Avvolta dal dolore di non conoscere le sorti del marito, l’unica scelta improcastinabile per lei è scegliere; un’azione che non ammette ignoranza e passività: ad un certo punto – esattamente come fa “l’Agnese” – è tempo di scendere in campo.
Così “Mamma Agnese” fa ciò che può: cucina per i combattenti, li accudisce e li nasconde; li aiuta nei trasporti di vivande e munizioni. Combatte per quello che concerne le sue capacità di stare in battaglia. Segue l’istinto del sentire quella Resistenza, anche sua. E’ pronta a tutto, anche al linguaggio della violenza, perchè lei non sa molto, ma sente di più. Ciò che percepisce le consolida la convinzione di essere dalla parte dei giusti nel condurre quella vita di clandestinità di cui la Viganò rende abilmente tutte le atmosfere.
“Nella vita partigiana, che si governava con le leggi proprie, dettante da un personale bisogno di onore, di fede, di pulizia morale, di ordine intimo, guai se non fosse esistita quella volontaria forma di giustizia, anche in quello che sembra di scarsa importanza. Chi tradiva veniva immediatamente eliminato, e si castigava con severità anche un piccolo errore: era necessario, dunque, che la fedeltà, il coraggio, l’amore per la resistenza, fossero riconosciuti, tenuti in conto. Non c’erano ricompense, né premi, né promesse per l’avvenire, né suono di frasi retoriche. Bastava una parola, un accenno, per dimostrare che il compagno comandante o il compagno dirigente o i compagni di lotta avevano capito il valore, la sostanza dell’individuo, la sua misura di sacrificio, di volontà e di capacità”.
Questo è uno di quei passaggi con cui la Viganò in questo romanzo riesce a rendere l’animo più intimo di quella Resistenza di cui l’Agnese è parte con la coscienza di capire, giorno dopo giorno, che il suo rimestare la minestra e cucinare pietanze che sfamassero i partigiani, o portare per loro le munizioni, sapendo che poteva voler dire andare incontro alla morte per gli altri, era il partito, e valeva la pena farsi ammazzare perchè era giunto il momento di cambiare il mondo […] di farla finita con la guerra, che tutti devono avere il pane, e non solo il pane, ma anche il resto, e il modo di divertirsi, di essere contenti e levarsi qualche voglia.
In questa prospettiva quello che c’è da fare, si fa – pensava “Mamma Agnese” ed è questo pronfondo senso del dovere che trasuda in ognuna delle immagini che la Viganò restituisce della Resistenza che è resa la sofferenza della stessa. Il che equivale a dire che chiunque abbia voglia di “rivedere” qualcuno di quei giorni di fatica sotto il sole d’estate o la neve d’inverno non può non leggere della vita di “Agnese” quella cominciata “un giorno, a un tratto” quando “la libertà si fermò”.
“Un giorno, a un tratto, la libertà si fermò. Non aveva più voglia di camminare. Se ne infischiava di quelli che l’aspettavano, mancava all’appuntamento senza un motivo, come fanno gli innamorati già un po’ stanchi”.
Tutti devono sapere chi è l’Agnese. Chi è la Resistenza.