Consegnare la storia di una persona alle pagine di una narrazione significa, per quanto possibile, contribuire a renderla eterna, pertanto “La ragazza con la leica”, romanzo edito Guanda vincitore del Premio Bagutta e del Premio Strega, nato dalla penna di Helena Janeczek, è più di un semplice racconto. La protagonista indiscussa è Gerda Taro, all’origine Gerta Pohorylle, fotografa tedesca nota per i suoi reportage di guerra e come protagonista di un sodalizio umano e professionale che l’ha unita al celebre collega Robert Capa. Nata da una famiglia di ebrei polacchi, Gerda giovanissima entra a far parte di movimenti socialisti e lavoratori. E’ un’energetica attivista politica e impara, grazie a Capa, incontrato a Parigi, a destreggiarsi nell’uso del linguaggio fotografico che usa per comporre immagine importanti prima di scomparire tragicamente all’età di ventisei anni, al ritorno dal fronte di Brunete (Spagna).
Tutto il libro ripercorre, non senza sprazzi di immaginazione misti ad un’importante ricerca documentale, alcuni anni della sua vita. Lo fa in modo “fotografico”, ma non per via di descrizioni minuziose, bensì per un molteplice cambio di prospettiva, come se la Janeczek posizionasse di volta in volta l’obiettivo della camera, proponendo zoom avanti e addietro, angolazioni e giochi di luce diversi. Così Gerda domina i ricordi, svegliati da una telefonata, di Willy Chardak, nella New York del 1960; rivive nei pensieri dell’amica con cui ha convissuto, Ruth Cerf, nella Parigi del 1938 ed infine in quelli di Georg Kuritzkes nella Roma del 1960; infine alcune immagini ne restituiscono il volto.
Dunque chi era Gerda Taro? “Oggi nessuno sa più chi era Gerda Taro. Si è persa traccia persino del suo lavoro fotografico, perchè Gerda era una compagna, una donna, una donna coraggiosa e libera, molto bella e molto libera, diciamo libera sotto ogni aspetto”.
Le pagine finiscono col somigliare a dei negativi che la Janeczek pare abbia osservato controluce per rivedere effettivamente quali immagini fossero in grado di restituire e valesse la pena, quindi, sviluppare per far rivivere Gerda e la sua storia di donna passionaria ed intelligente, giovane e pronta ad inquadrare l’orrore con la sua “Leica” affinchè nulla di quella storia fosse dimenticato.
Il tutto avvolto in un amore, quello nato con Capa, apparentemente insondabile, ma perchè così profondo da non avere confini nello scambio emozionale, umano e professionale, come se mettendole tra le mani quella prima macchina fotografica le avesse insegnato a leggere e scrivere la realtà; così come in tutto l’amore che le orbitava attorno: quello che gli uomini finivano per provare per lei, catturati dal suo carisma e dall’aurea di determinazione che la attorniava, ma anche quello che lei riversa, ancorata alla sua speranza e alla sua tenacia “per una lotta a cui sapeva appartenere il futuro di tutti”, nel mondo stesso che pur le crolla via via intorno e, alla fine, vede crollare anche lei, appena nel fiore dei suoi anni.
“Intorno alla tomba si espandeva una calca ingombrata di striscioni e bandiere rosse che rendeva invisibile chi prendeva la parola. Le masse operaie puzzavano di sudore, ma ancora più puzzavano le corone e i mazzi già appassiti da ore di cammino sotto il sole. Orazioni solenni e battagliere, telegrammi, versi (o erano frasi poetiche?) dedicati a un’allodola scomparsa a Brunete che non cesserà mai di far udire il proprio canto”.
Gerda come un’allodola; come un piccolo e vivace uccellino di campagna dal canto cristallino intonato alle prime luci dell’alba, nonché tra le figure più poetiche proprio in quanto simbolo del nuovo giorno. Ed è in effetti a tanti nuovi giorni che sopravvisse lo spirito della Taro, prescindendo dalla sua concreta presenza, sorvolando alto sulle macerie di un passato bellico ed infine tuffandosi con una parabola nel “romanzo-nido” della Janeczek, affinchè certi esempi di bellezza, ovvero di fascino e coraggio tutto al femminile, non vadano persi nel tempo.