“A pensarci bene, è più semplice trovare ragioni per tacere piuttosto che per parlare”. E’ per questo che per molti anni le memorie della tragica esperienza della deportazione ad Auschwitz della Senatrice Liliana Segre sono rimaste sospese come una valanga sulla cima di una donna, forte come una montagna, pronte a venir giù. Sono rimaste in bilico, fino ad aver maturato la consapevolezza che La memoria rende liberi ed aver scritto a quattro mani con il Direttore del Tg La7, Enrico Mentana, questo profondo viaggio nella vita interrotta di una bambina nella Shoah, ma soprattutto anche nella donna che quella bambina con grande forza di volontà è diventata, in particolare grazie prima all’amore di suo padre, Alberto, e poi quello di suo marito, Alfredo.
E’ stato l’amore a proteggerla e salvarla. La storia che racconta, a partire da quella bambina di otto anni che improvvisamente e per via delle Leggi razziali si vide espellere dalla sua scuola e via via privare della sua quotidianità fino al tentativo di fuga in Svizzera e la deportazione, non ha nulla a che vedere con il rancore e d’odio. Intangibile è alcun desiderio di vendetta, lampante è tutta la volontà di voler riconoscere il proprio dolore, non più solo con un dolore intimo e incomprensibile agli “altri”, ma come un dolore condiviso con il quale fare entrare empaticamente in contatto quante più persone possibili, in particolare grazie alle centinaia di incontri con gli studenti.
“Mi dicevo. C’è un mondo che parla di cose che io ho visto con i miei occhi, e io non ho il coraggio di dire la mia? Ma io sono una testimone, ho una responsabilità diretta nel tramandare la mia storia”.
Liliana Segre è sopravvissuta per caso in mezzo a tanta morte che ha spesso guardato senza voler vedere, nella lecita convinzione di potersi annichilire, dunque proteggersi, davanti a tanta bestialità. Orrori di cui, chiaramente, non è stato possibile sbarazzarsi, né mai lo sarà per chi è tornata da uno dei campi di concentramento. Al di là della sua storia di deportazione affidata alle pagine di questo libro, la sua crudeltà e solitudine, “allen”, quella condivisa con milioni di altri ebrei e non solo, ciò che tocca l’animo di chi legge è la storia del suo ritorno. La storia dei “sommersi” di Primo Levi.
“ognuno di noi, uscito dal campo, affrontò una storia completamente diversa”.
Giorni fatti di ricostruzione fisica e mentale. Tentativi di “normalizzazione” dopo “qualcosa” che aveva innalzato incontrovertibilmente la soglia del male possibile. La Segre, al suo ritorno, era una tredicenne sopravvissuta ad Auschwitz, orfana tra macerie reali tanto materiali quanto emotive, in una Milano che pur aveva vissuto, ma nella quale inizialmente non riusciva più a ritrovarsi.
Detto ciò, ritengo che sia indegno da parte mia provare a continuare a raccontare quello che l’animo suo ha riversato nelle pagine de “La memoria rende liberi”: è un vissuto che non si può traslare, come potrei io rendervi l’idea della “vera felicità” in un “pezzetto di carota” o di “uomini che provavano pietà per altri uomini condannati al macello solo per la colpa di essere nati”? Non potrei, ma lei sì. I testimoni, come Liliana Segre, vanno letti: letti in tutti i modi in cui un vero ricordo possa essere fatto proprio, perchè è lì che giace il coraggio e la speranza che si nutre della possibilità di essere liberi di scegliere.
“Ormai era primavera e, nonostante la cattiveria di uomini, la natura era fiorita”.