Quando una donna, comincia a dirsi tale? Quando una donna comincia a sentirsi tale? Non ha del canonico l’eventuale risposta che si può fornire ad entrambe queste domande, e La bella estate ( ET Scrittori, 2015) non fa che raccontare una delle possibili, ripercorrendo l’ “estate “ di Ginia.
Al cospetto delle pagine di Cesare Pavese, l’impressione che ho è costante: sembra che a guidarti sia un profondo viaggiatore della vita, o meglio delle vite; uno che maneggia il mestiere di vivere suo e degli altri con l’abilità di raccontarlo ricorrendo alla schiettezza dell’essere per com’è e alla poeticità della metafora. Ne La bella estate – premio Strega nel 1950 – passa al setaccio il passaggio di una giovane al suo essere donna: lo fa usando le stagioni un po’ come il poeta Giacomo Leopardi usava i giorni della settimana.
Ad un “inverno” – che come un venerdì leopardiano – conduce Ginia nella città di Torino, segue una primavera ed un’estate – in cui sembra riecheggiare quel dì di festa del Sabato del villaggio – in cui scopre l’amore: quello sentimentale, così come quello carnale.
A quei tempi era sempre festa. Bastava uscire di casa e traversare la strada, per diventare come matte, e tutto era così bello, specialmente di notte, che tornando stanche morte speravano ancora che qualcosa succedesse, che scoppiasse un incendio, che in casa nascesse un bambino, o magari venisse giorno all’improvviso e tutta la gente uscisse in strada e si potesse continuare a camminare camminare fino ai prati e fin dietro le colline.
Ginia vive la sua “estate” che comincia con l’amicizia di Amelia, una giovane di poco più grande già ben oltre la sua “prima estate”, con la quale si diverte scanzonata, spensierata, ad immaginarsi donna adulta, rispettabile, attraente, ma con cui – allo stesso tempo – comincia a guardarsi attorno, percependo realmente, non più solo la proiezione di sé e della sua amica – modella di alcuni pittori – bensì anche l’ambiente di sfondo a tutto questo loro vivere, che le risulta come sregolato e rispetto al quale finisce con l’incarnare – come lo stesso Pavese affermò –la storia di una verginità che si difende.
L’amore, però, come quasi inevitabilmente accade, non può non bussare al cuore di un’adolescente e da quello sfondo risale Guido, giovane artista, per cui esplode il suo sentimento più vero. Ginia non si lascia andare. Almeno non subito. Quella “battaglia” intesa a difendere quell’integrità dettata dalla paura e contrastata dalla curiosità della scoperta e dalla volontà del desiderio di felicità che subodora conoscendo quel bello e dannato, si fa densa.
E’ proprio quella battaglia alla quale finisce col soccombere attraversando definitivamente l’uscio dell’appartamento del pittore e lasciandosi sedurre corporalmente ad accendere i giorni – l’ “estate” – della protagonista rendendo quella “stagione” bella. La passione, l’illusione che l’amore dà di pontificare giorni, mesi, anni – altre “stagioni” – che ti dona un tempo carico di attese, finiscono con lo scontrarsi con l’“inverno” che è alle porte – come la domenica leopardiana – nel quale di quell’ “estate” non resterà che il ricordo.
E’ certo che se quel che resta è il ricordo, questo non può che rimandare alla malinconia, ad una dimensione nostalgica, ma l’amore restituisce sempre alla vita – dopo averla attraversata con tutta la sua potenza, creatrice e devastatrice – una donna (o un uomo!) diversa, che alternerà momenti di indulgenza ad altri di biasimo e condanna verso se stessa. Ed è questa una storia che ritorna, che non ha tempo. Per Ginia, per Amelia – che gioca anche con l’amore saffico alla ricerca di sempre nuovi sentimenti veri – e per tutti.
In certi momenti, per le strade, Ginia si fermava perchè di colpo sentiva persino il profumo delle sere d’estate, e i colori e i rumori e l’ombra dei platani. Ci pensava in mezzo al fango e alla neve, e si fermava sugli angoli col desiderio in gola. «Verrà sicuro, le stagioni ci sono sempre», ma le pareva inverosimile proprio adesso ch’era sola. «Sono una vecchia, ecco cos’è. Tutto il bello è finito».
Altre “estati” torneranno e tutte varrà la pena di viverle, anche se questo alla “prima estate” – per sempre unica, irripetibile – non lo credi, né lo speri.