Da un po’ campeggiava sul comodino. L’ho scelto per il senso di quiete che mi trasmettevano due elementi della copertina: il colore blu e la parola “elefante”; ma poi è stato sorpassato da diverse numerose letture, fino a quando non ho deciso di aprireIl senso dell’elefante (TEA, 2012) di Marco Missiroli.
Si è subito dipanata un’atmosfera “nebbiosa”, complice l’ambientazione a Milano, o per meglio dire in un condominio di Milano, dove il protagonista – Pietro – si trasferisce per fare il portinaio ed un continuo bilico – favorito da flashback sparsi qua e la – tra presente e passato. Sì perchè Pietro è un ex-prete; ha lasciato la sua Rimini ed è divenuto custode di apparamenti, chiavi, costruendo un legame enigmatico con uno dei condomini, il giovane medico Martini, sposato con una bambina.
Sono solo gli elementi base di una storia la cui chiave sta nel potentissimo simbolo dell’elefante: accettazione e saggezza, affetto per la famiglia e temperanza. Salute, perspicacia e memoria. Nel mondo degli animali, l’elefante è senza dubbio ritenuto un segno di buona sorte, purché la proboscide sia rivolta verso l’alto. L’elefante è la consistenza dei legami, al di là del sangue.
Il condominio, dunque, diventa con la penna di Missiroli un microcosmo nel quale questi legami ruotano attorno allo sguardo di Pietro, toccando tanti – importantissimi – temi: che vanno dall’amore – proibito, tradito, vissuto – all’abuso; dalla malattia all’eutanasia; dalla paternità all’aborto; dall’omosessualità alla religione; dal suicidio alla disabilità.
C’è tanto, qualcuno direbbe troppo. Si potrebbe risolvere dicendo che c’è la vita ed essa contempla il tutto e il niente ad ogni istante di quotidianità e i personaggi che fanno “camminare” questi temi non sono altro che prestati ad essi, senza particolare approfondimento, ma ricchi di quella che nell’antica cultura classica avrebbero chiamato “pietas”.
“I peccati degli altri si dimenticano. Sono i nostri peccati che si conservano”.
Un’indulgenza tale nei confronti della fragilità dell’uomo che è propria di chi vive e comprende o, proprio perchè non comprende, o quanto meno non condivide, comunque non giudica. Questo accade quando si ha coscienza di una condizione comune ai tutti i padri – di sangue o spirituali – l’impotenza nell’alleviare, alle volte, la sofferenza di un figlio, ma nonostante tutto – come gli elefanti – il tentativo, per innato istinto, di proteggere “i piccoli del branco”.
“Quello era il senso dell’elefante e di ognuno di loro, padri, la devozione verso tutti i figli”.