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“Gli scaduti”: quando la “rottamazione” disegna una nuova società, il romanzo di Lidia Ravera

Negli ultimi anni ha dominato – in ambito politico, ma non solo – un termine che con sé ha portato un dilagante modus operandi: “rottamazione”. Nato in ambito automobilistico in quanto pratica di sostituzione del vecchio, dell’usato con il nuovo,  è esattamente questa la procedura che ha suggerito e promosso da più lati nella società, fino a contagiare con una vera e propria dinamica di “rimpiazzo” –  anche umano – ciò che più che altro avrebbe dovuto seguire un graduale e naturale avvicedamento. E’ da qui che si fa largo il romanzo della scrittrice Lidia Ravera dal titolo Gli scaduti (Bompiani, 2015).

A me, che di mestiere racconto storie, la parola “rottamazione” ha stimolato un nervo, per così dire, letterario, che non sapevo scoperto e sensibile, quanto basta per immaginare un nuovo modello di mondo, prossimo al nostro e, pur nell’estremismo delirante delle “regole”, verosimile.

Nel libro della Ravera la fantasia dipinge un mondo in cui i cittadini di un imprecisato Occidente fossero legati irreversibilmente ad una sorta di data di scadenza e costretti a ritirarsi dalla libera circolazione tutti insieme, allo scadere del sessantismo compleanno.

Una realtà distopica in cui ci sono regole precise e imprescindibili a gestire, ad esempio, le gestazioni al venticinquesimo anno d’età delle donne; il sesso “libero” come pratica di attività fisica, il ritiro in un posto isolato – per tutti – al sessantesimo anno d’età, con la produzione di una vedovanza forzata da parte del coniuge che rimane ancora, per così dire, “attivo”.

La Ravera immagine, una pressocchè impressionante, esistenza cadenzata da una sorte di dovere alla “rottamazione”; applica, senza sfumature, l’accezione più radicata del termine al genere umano, immaginando di scandire – come un contachilometri per le auto – l’inizio della fine, ma anche tutto lo snodarsi di un’esistenza che, ovviamente, finisce con l’allontanarsi drasticamente dal più naturale degli eterogenei divenire dell’umanità.

Dietro tutto questo l’autrice mette alla regia quello che chiama un “Partito Unico” che si preoccupa e occupa anche degli stati d’animo, costruendo dunque pure le tappe emotive di ogni essere umano ed incentivando – ad esempio – l’ “enfasi prenatale” delle generazioni in età produttiva in stato di gravidanza.

E’ chiaro che la Ravera si sia cimentata con un romanzo ironico e paradossale in cui quello che è da sempre vissuto come il “normale” conflitto generazionale diventa, nel suo racconto, una sorta di incubo totalitarioma credo si possa scorgere anche un intento profondamente legato a ricordare l’importanza dell’idea che le parole trasmettono e, di conseguenza, all’attenzione indispensabile nello scegliere le parole da usare affinchè venire al mondo non equivalga realmente a dire ancora un push e siamo in onda!.

C’è poi un altro aspetto che, alla mia lettura, non merita di essere trascurato, ovvero la risposta ad una domanda che sottende, di fatto, l’intero romanzo: sarebbe giusto ribellarsi ad un mondo così? E, soprattutto, sarebbe possibile farlo?

La risposta è una donna: Elisabetta, tra i tanti personaggi – a mio avviso – la vera protagonista del testo. Mi piace sottolinearlo non in virtù di una declamata egemonia femminile, ma per l’intima convinzione che mi pervade, da sempre, che le vere “rivoluzioni” passano attraverso il sentire profondo delle donne, in quanto spiriti creatori per eccellenza.

Tant’è che è lei a consegnare al lettore questa frase:

Dove siamo diretti? Non lo so. Dove la vita dura meno, dove i vecchi valgono di più, se non altro perchè sono più rari.

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