Listened for You Whatched for You

Quella “tachipirina dell’anima” che si chiama De Andrè.

Fabrizio De André e PFM. Il concerto ritrovato ogni giorno, oltre ogni “schermo”, dentro ogni parola in testa ad un gesto. Il docufilm diretto da Walter Veltroni (prodotto da Sony Music con Except) e arrivato al grande pubblico nelle sale cinematografiche – dal 17 al 19 febbraio 2019 – in occasione di quello che sarebbe stato l’ottantesimo compleanno del cantautore genovese, vola oltre ogni retorica nostalgica per giocare con tante dimensioni del tempo e dei tempi.

Un connubio imperdibile di quel ensemble di cantautorato e contaminazioni rock che la caparbia sperimentazione di Faber e della Premiata Forneria Marconi riuscirono a portare in scena, ma anche una pagina miliare della storia del cantautore genovese, così come dei musicisti della PFM, dell’Italia degli anni settanta e – nell’inevitabile confronto – del Paese che è oggi.

Dopo circa quarant’anni di bui scaffali, hanno rivissuto le uniche riprese di un concerto autorizzate da De Andrè, realizzate e custodite da Pietro Frattari, introdotte da un’indispensabile restituzione di un contesto politico/sociale/musicale che parte da “L’Agnata”, quell’angolo di realtà nella Gallura che Faber aveva scelto per sé e la sua famiglia, per la realizzazione della sua dimensione personale che risultava quanto meno “ostinata e contraria” rispetto a quella che inesorabilmente coinvolgeva – per certi versi – la società dell’epoca.

Per spostarsi poi su un treno e in altri spazi tra alcuni dei protagonisti di quel concerto-evento – tra cui David Riondino, Franz di Cioccio, Patrick Dijvas, Franco Mussida, Flavio Premoli, Guido Harari, ma anche la stessa vedova De Andrè, Dori Ghezzi – per raccontare quel tempo fatto anche di contestazioni, bisogno di schierarsi, quando un concerto poteva diventare un’occasione di scontro. Fino ad arrivare al padiglione C dell’ex-Fiera di Genova, dove in quel lontano 3 gennaio 1979, il centro culturale “Filippo Turati” aveva organizzato appunto il concerto “ritrovato”.

Così scatta la sfida al tempo, la doppia esperienza: di chi ha potuto rievocare il ricordo musicale e chi – grazie al docufilm – ha potuto realizzare il sogno di sentirsi parte di un concerto di De Andrè pur non avendolo potuto fare in passato – magari per mere questioni anagrafiche.

Passato.

Ma è davvero “passato”? Il peso di quell’esperienza musicale, la lungimiranza di quelle parole sono davvero “passate”? Il successo di pubblico di cui si è letto sin da subito sembra esprimere un bisogno di presente, questo sì – forse – nostalgico, ma certamente coraggioso, che poco ha a che vedere con ciò che si etichetta come “trascorso”.

Ed è qui che arriva lo spazio sintattico della reticenza saturo dell’inflessione del tempo.

Sarà che canticchiando “La storia di Marinella” sentiamo ancora il bisogno di guardare oltre la cronaca più nera per trovare la storia dei protagonisti; che intonando “Rimini” pensiamo alle affermazioni quanto meno azzardate in merito al diritto delle donne di abortire; sarà che “Il Giudice”, “Il pescatore” o “La guerra di Piero”, ci fanno mettere quanto meno indubbio le certezze intorno al pregiudizio, alla morale o alla giustezza di una guerra. Ci sentiamo ancora persi come “Andrea” davanti all’amore che spesso dispera e confonde, in qualsiasi sua sfumatura – che sia quello di “Bocca di rosa” o quello che abitava in “Via del Campo”. Portiamo tutti i segni di un ”Amico Fragile” e lo sforzo di comprenderlo e portarlo con noi. E dopo anni – vecchie e nuove generazioni – cercano ancora nella visione di De Andrè, nelle sue parole l’ispirazione alle proprie risposte, la forza di “voltare la carta”.

E’ così che gioca il tempo: precorso, vissuto, rievocato, sublimato, ed infine cancellato. Che sia quello d’ogni poltrona occupata in quei tre giorni, quello di Faber, della musica o degli ideali.

Il meraviglioso docufilm Fabrizio De André e PFM. Il concerto ritrovato, è la dimostrazione che certi tempi non possono tornare, certi spazi cambiano volto e pian piano anche sostanza, ma certe profondità tanto umane quanto più pure, si possono liberare di qualsiasi sovrastruttura e sottrarsi a qualsiasi nodo o giro del tempo.

Perchè parlarne oggi? Perchè a fine ottobre – precisamente il 26,27 e 28 ottobre 2021 – nelle sale italiane riaperte dopo lo stand by imposto dalla pandemia da Covid-19, è riecheggiato di nuovo il nome di Fabrizio De Andrè con un lavoro cinematografico firmato dal figlio Cristiano.

Cristiano del padre ha dignitosissimamente raccolto l’eredità musicale e con DeAndrè#DeAndrè – Storia di un impiegato – non potendo prescindere dal considerare l’album “Storia di un impiegato” l’anima della poetica Faberiana – accoglie l’eredità culturale di forma, oltre che di contenuto. Quel lascito che mi fa chiedere, spesso, dove sia quell’umanità in grado di riempirsene gli occhi.

Davvero si è estinta?

Cristiano De Andrè, nel film, dimostra di averla accettata e compresa, chiudendo idealmente quel cerchio aperto già con il libro “La versione di C.” e consacrata con la presenza di suo figlio, Filippo. Un percorso, quindi, che cerca di lasciar proseguire e che suggella quando canta “Verrano a chiederti del nostro amore”, ripescando – nonostante desidererebbe avere una “balia della memoria” per i ricordi che non riesce a trattenere – uno dei ricordi più intimi che lo consegnano alla pace con suo padre.

Quella “pace” di cui tanti sono in cerca in questo tempo sospeso; per cui si avverte indispensabile la necessità di continuare a prendere quella “tachipirina dell’anima” che si chiama De Andrè.

Potrebbe anche interessarti...