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“La lunga notte del Dottor Galvan” l’ironia travolgente di Pennac

Un sarcasmo avvicente ed un linguaggio dinamico che non possono passare inosservati sono gli ingredienti della scrittura di Daniel Pennac, che splendono in un meraviglioso racconto intramontabile come “La lunga notte del Dottor Galvan”. Pagina dopo pagina non solo si ha l’impressione di vedere ciò che paradossalmente potrebbe diventare una scena di normale amministrazione in un qualsiasi nosocomio, italiano o meno, ma come all’apertura di un sipario, s’impone all’attenzione una grande prova di condanna e coraggio rispetto ai luoghi comuni trionfanti nella società dell’apparenza. Una società, anzi, per dire meglio, da “bigliettini da visita” destinata al superamento solo con la riscoperta dell’istintualità più vera: ed ecco Gerard Galvan.

Gerard Galvan è un giovane medico di guardia al pronto soccorso di un grande ospedale parigino, messo alla prova dalla notte delle notti, quella per eccellenza: la domenicale e col cielo e gli animi governati dalla luna piena. In questa circostanza il corridoio del primo soccorso è davvero pieno pieno di persone: tra “incidenti domestici, infezioni eruttive, suicidi abortiti, aborti mancati, sbronze comatose, infarti, attacchi epilettici, embolie polmonari, coliche nefritiche, bambini bollenti come pentole, automobilisti in polpette, spacciatori fatti a colabrodo, barboni in cerca di alloggio, donne picchiate e mariti pentiti, adolescenti fumati, adolescenti catatonici…”.

Gerard Galvan è il perfetto “brav’uomo”, che pensa, come una vera e propria ossessione al suo “biglietto da visita”, come tutti i “bravi uomini” che si rispettino, consigliato dalla sua fidanzata, medico, figlia di medico e pronta a dare alla luce con lui altri quattro/cinque futuri medici. Il giovane medico di guardia sul suo non vede l’ora di scrivere il proprio nome, ma soprattutto la sua qualifica: “Fondatore della società francese dei medici d’urgenza”

Un via vai di pensieri nei quali si perde, correndo da un paziente all’altro, fintanto che non si ritrova dinanzi ad un uomo seduto su una sedia che altro non dice che la frase “non mi sento tanto bene”. Ecco egli è all’inizio della sua folle notte, di quelle che non a caso è una notte: è un tempo destinato a cambiarti la vita, e un po’ come per l’Innominato del Manzoni e tanti altri classici della letteratura, è quella nottata che “adda passà” per lasciare spazio ad un nuovo giorno.

Galvan prova in tutti i modi a salvare dalla morte questo paziente che presenta via via sempre nuovi sintomi a cui corrispondono nuove diagnosi: occlusione intestinale, esplosione della vescica, attacco epilettico, attacco cardiaco. Ovviamente la corsa da un reparto all’altro ha del comico, grottesco quasi, in un quadro che sembra in sui si animano tentativi e rimpalli di responsabilità che, alle volte, caratterizzano anche certi episodi di malasanità.

La notte è lunga. Galvan decide di rimanere accanto al letto del paziente, ma si addormenta e al mattino il malato non c’è più. Una situazione che lo manda completamente nel panico, che comincia a cercarlo pur rendendosi conto di non conoscerne neanche il nome. Intanto si fanno le nove del mattino, l’ora della riunione con il Prof. Madrecourt, durante la quale ricompare il paziente in splendida forma. Di lì è una spasmodica attesa per la confessione sull’accauduto, sul “cazzotto” che romperà una faccia, una mano e tutti gli equilibri di una vita già scritta.

Ironia e una delicatezza spregiudicata, lasciata libera dalla seriosità e lanciata verso un’eversivo stile in cui divetano plausibili personaggi e scene che sfiorano l’irreale. Tutto questo è Daniel Pennac, scrittore francese dallo stile inconfondibile, tassello di quella flosofia del mondo alla rovescia. Meraviglioso intrecciatore di ritmi frenetici, battute e umorismo feroce, con un andamento che rievoca immagini teatrali alla Moliere. La pillola giusta, grazie all’apparente leggerezza, in una giornata di cattivi pensieri dalla quale staccare; una pillola più che giusta, per l’evidente profondità, in una giornata di presa di coscienza.

Una lezione, la sua, che rimane inossidabile: «L’uomo costruisce case perché è vivo ma scrive libri perché si sa mortale. Vive in gruppo perché è gregario, ma legge perché si sa solo. La lettura è per lui una compagnia che non prende il posto di nessun’altra, ma che nessun’altra potrebbe sostituire» .

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