La chiamano Lanterna del destino. Dicono che, se due persone l’accendono insieme, le loro vite sono destinate ad incrociarsi per sempre, così tra l’amore di Salvatore e Giulia e l’amore per l’intera umanità che riesce a vedere nel prossimo semplicemente un altro uomo da soccorrere ed accogliere, si distende il selciato che seguono Le tartarughe (che) tornano sempre (Universale Economica Feltrinelli, 2018), la bellissima storia scritta di Enzo Gianmaria Napolillo.
Tutto parte da un’isola, quella dove Salvatore è nato, quella in cui Giulia torna ogni anno per le sue estati, e non sarebbe potuto partire da nessun altro punto geografico che meglio di questo possa incarnare l’uomo ed il suo essere. Chi di noi non è un’isola? Remota, impervia, schiva fin a quando qualcuno non si addentra tra le liane dei gesti, scacciando l’erbaccia dell’umore e rintanandosi nelle caverne del cuore. Lì dove accendono fuochi perpetui e restano, oltre tutto, oltre tutti. Salvatore è la sua isola, Giulia è la sua esploratrice.
Sulle spiagge di quell’isola, davanti agli occhi di Salvatore, si affaccia però un altro amore, quello figlio della disperazione che ti opprime il diaframma, impedendoti di avvertire altro odore da quello della moribonda indifferenza: arriva quel corpo con i suoi occhi rivoltati, quel corpo che, nonostante tutto, griderà sempre più vita e più speranza di quanto gli sguardi voltati dall’altro lato saranno in grado di fare. Saranno quegli occhi a custodire, per sempre, la preghiera modesta, sostenuta peraltro dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, a cui non rimanere sordi, di accogliere chi scappa dalla “brutalità” e dall’ “arbitrio”.
Questo racconto corre sulle distanze, sul rispetto della lontananza, sulla sfida al tempo e allo spazio: lo fanno i suoi immigrati dalle coste africane, ma lo fanno anche Salvatore e Giulia, che si cercano disperatamente come fossero la terra ferma l’uno dell’altro, nell’alchimia irripetibile se non quando sono insieme. Loro due. Loro e basta. Come se si appartenessero da sempre, oltre la loro volontà. L’uno per l’altro un Tu. Un pronome, un pensiero, e un significato che è bello ripetere e ripetere.
Non basta Milano. Non serve New York. Non sono sufficienti i sogni degli altri ad ostacolore i loro, perchè alla fine, dopo anni, loro sono di nuovo lì, sulll’isola, ognugno sul profilo dell’altro. In un richiamao atavico, che poi è lo stesso che non separa mai veramente né loro, né loro all’isola in cui sono nati come “noi”. Un noi che riguarda tanto loro, tanto loro e il resto dell’umanità alla quale continuano a dedicarsi: perchè non serve una laurea per dare un nome a quei “disperati”, per raccontare la loro storia e tirarli fuori da parole pragmatiche che non li hanno mai visti da vicino, da fotografie fredde in cui si vedono solo i loro contorni.
Tutti torniamo alla nostra “isola”, perchè siamo tutti come le tartarughe. “Quando le uova schiudono, i piccoli si fanno guidare verso il mare dai riflessi di luce della luna e delle stelle, nuotano senza sosta anche per gironi, vanno lontani migliaia di chilometri, spariscono per più di vent’anni, ma non dimenticano mai da dove vengono”.
Siamo tutti così. Nessuno di noi dimentica chi gli appartiene veramente. Nessuno di noi non sa dove tornare, nessuno non sa qual è il suo porto sicuro. Il punto è che Napolillo lo spiega bene: è una questione di tempo, di spazio, ma soprattutto di forza e coraggio. E’ questione d’amore.