La familiarità con la parola virus ha subito un’impennata mostruosa negli ultimi tempi. Per via della pandemia da Covid-19 l’avremmo pronunciata centinaia di volte e chissà quante altre volte lo faremo. Eppure questa parola è sempre appartenuta al nostro vocabolario per indicare, purtroppo, tante manifestazioni di questa particella infettiva di dimensioni submicroscopiche che sono state in grado, nel corso della storia dell’umanità, di cambiare la vita di migliaia di persone. Sembra però che ci sia stato un tempo ed una delle sue rivelazioni per i quali si abbia avuto più timore di pronunciarla. Sto parlando del virus dell’immunodeficienza quello che causa l’AIDS.
Erano gli anni ottanta quando il fenomeno divenne oggetto di studio e la stretta correlazione alla vita sessuale di chi lo contraeva ha forse reso, soprattutto in prima battuta, l’argomento ostico alla disinvolta trattazione rispetto a molti altri temi. Pare fisiologica la capacità – che spazia dallo spigliato all’impudente – su questioni lontane, apparentemente più semplici da erigere al pubblico dominio, o rispetto alle quali ci sentiamo in diritto di palesare la nostra opinione. Quando le faccende – i virus – non riguardano un colpo di tosse, piuttosto un momento di passione, invece, per molto tempo – ed ancora in qualche spaccato socio-culturale – la vicenda sembra complicarsi.
Di base, credo di poter affermare che ci sia una questione di responsabilità. Tanto più c’è una lucidità che viene a mancare – come l’uso del preservativo in rapporti sessuali occasionali – tanto più diventa difficile empatizzare quanto più semplice giudicare. Ma davanti al pregiudizio alzare la posta: meglio tacere? Lo sapranno anche i muri.
Un prologo così lungo ha rischiato di apparirvi insensato, ma l’ho creduto un solco fondamentale per presentarvi Febbre (Fandango Libri, 2019), il romanzo di Jonathan Bazzi tra i finalisti dell’ultima edizione del Premio Strega.
Tra i meriti di questo libro, infatti, va preso atto del coraggio di lanciare un nuovo modo di rivalersi su questa malattia spesso tradotta e ridotta a stigma sociale, come se a viverla non fosse un corpo umano, le sue ansia, i suoi timori, le sue speranze, insomma il suo cuore. La storia di Jonathan restituisce, esattamente, questa dimensione, i giorni che cambiano di una coppia sierodiscordante, un corpo che cambia sotto il peso di una diagnosi che lo ha liberato, perchè era l’incertezza che non sopportava. Un “sollievo” che però presenta il conto di un corpo che somatizza la presenza imperitura e di un’anima che fa conti con il passato di un bambino cresciuto a Rozzano (MI), preda della sua balbuzie, e che ha passato troppo tempo a mettere distanze tra sé e gli altri.
Un animale con la pelle aperta, mi dirà anni dopo la mia maestra di meditazione. Cresciuto in stato d’allerta.
Un ciclo – anche narrativo – che converge nell’uomo dell’oggi che combatte quel virus che parla, è pettogolo, e gli tiene testa – nella battaglia – proprio accorciandole quelle distanze, regalando la sua storia agli altri e prendendo quotidianamente una pillola, tanto simile ad un confetto, rosa pallido.
La mente è più pericolosa di tutto quello che la circonda, i problemi veri sono quelli che lei- artigiana, falegname, burattinaia – si costruisce da sola. Teatro delle ombre. Ogni cosa che viene dall’esterno è risolvibile, la si può scansare, attraversare. Ma se è la mente stessa a diventare ostile, dove te ne vai? Cosa affronti, dove ti sposti? Energie in eccesso: liberarle, condividerle, mandarle al mondo. Altrimenti ti si ritorcono contro.
Sebbene Febbre sia una di tante storie, non tutte le storie che ovviamente incarnano drammi diversi, lancia però un paradigma che, tutto sommato, è un ottimo acceleratore di condivisione e, dunque, di superamento. C’è un tempo dell’amore, un tempo della gioia e – qualcuno dice per bilanciamento – un tempo della sofferenza, ed ognuno è chiamato a giocarsi la partita con la sua, senza morire sotto il peso angosciante dello sguardo inquisitore dell’altro. La Febbre, raccontata da Jonathan Bazzi, è sintomo d’amore e di battaglia.