Il Premio Nobel per la Letteratura 1998 Josè Saramago con “Il vangelo secondo Gesù Cristo” ha rivelato e liberato al mondo Gesù, primogenito di Giuseppe e della giovanissima Maria, icona del pensiero e dell’atteggiamento rivoluzionario, catturando l’essenza di un uomo e restituendola in una narrazione dal carattere verosimilmente autobiografico. Saramago trova un giro di chiave geniale nella toppa del vangelo, che altro non è considerabile che un’antica versione della moderna biografia, lasciando che Gesù parli di Gesù.
Una giustizia letteraria, biografica, volendo anche religiosa: dopo Marco, Matteo, Luca ( tutti ispirati da una fonte ricostruita, la “Fonte Q”) e Giovanni tra i canonici, ed ancora Tommaso, gli Ebrei, gli Egiziani ed altri tra gli apocrifi, la bilancia poteva essere riequilibrata solo se sull’ago fosse stato messo Cristo e Saramago ce lo mette. Un uomo vissuto senza la consuetudine della scrittura, almeno fino alle prime lettere, in particolare quelle del fedele Paolo di Tarso, che finalmente può rifugire dall’ intrappolamento nelle numerose versioni che coesistono sul conto della sua vita.
Nelle pagine di questo capolavoro rivive il figlio di una famiglia piuttosto povera e a tratti disperata, ma di grande fede, che si fa adolescente tormentato, soffocato dal complesso ancestrale freudiano nei confronti del padre e che fugge. Viaggia nella vita, tra la gente, attraverso terre lontane dal paese dell’infanzia, forte di spirto critico, senso logico e pietà, fino alla morte sul Golgota. E’ un destino che si compie non propriamente cercato, né accettato, come una vittima sacrificale che perisce in balia della potenza e della volontà espressa di un Dio che è padre anche del dolore che provoca.
Allora questa “biografia” di sé, diventa quella di un Cristo che ancora una volta si mette al servizio degli altri per la riflessione e comprensione profonda dell’opposizione tra bene e male, dell’assurdità tutta umana tra il giusto e l’ingiusto. E’ un pendolo che oscilla tra il senso della vita ed un divino che appare ambiguo e quasi inesorabile nella sua completezza.
Così il Cristo di Saramago vive come una “mosca”. C’è un momento, un attimo prima di sfiorare la tela, in cui la mosca farebbe ancora in tempo a sfuggire alla trappola, ma se l’ha toccata, se la pania ha catturato l’ala diventata inutile, ogni movimento servirà solo a far sì che l’insetto s’imprigioni sempre più fino a immobilizzarsi, irrimediabilmente condannato, anche se il ragno disprezzasse, perchè insignificante, questa preda. Per Gesù, il momento è già passato.
Nel dipanarsi delle immagini di un uomo come altri, con dubbi, domande, perplessità e sofferenza, intrisa di senso d’abbandono, si disegna una nuova “autorità spirituale”, ben lontana da quella bramata dalla stesura dei vangeli degli “altri”, quella necessaria a non smarrire la sua esperienza, il suo insegnamento. Non è un esempio, ma una esemplificazione, in cui chiunque ritrova la sua debolezza e riconosce Gesù come ribelle predicante d’amore e condivisione, in grado di mettere implicitamente in discussione la lex romana sovrapponendole principi di fratellanza che prescindano dal bisogno di un estrazione “divina”.
Nell’esperienza di Cristo-uomo della coinvolgente narrazione di Saramago, come in quella di ogni individuo, si avvicinano specularmente le mani di Dio e del Demonio, in quella luce/oblio in cui l’individuo gioca la sua partita. Gesù guardava la sua povera anima e la vedeva come se quattro cavalli infuriati la stessero tirando e ritirando in quattro direzioni opposte, come se quattro cime arrotolate a quattro argani gli strapassero lentamente ogni fibra dello spirtio, come se le mani di Dio e quelle del Diavolo, divinamente e diabolicamente, si divertissero, giocando ai quattro cantoni, con ciò che restava di lui.
La chiave dunque apre una porta dalla quale fuorisce un Cristo davvero universale, oltre il dogma.