Se ogni vita fosse una proposizione, auspicabilmente principale, saremmo soggetti collegati ad azioni, magari in mezzo a tante subordinate, e risponderemmo alle regole dell’ortografia italiana. Saremmo chiusi da un segno di interpunzione definitiva – il punto – e oltre di noi ci sarebbe solo l’eco di altri testi, di altre affermazioni. Per tanti la metafora è un dispiegamento biografico esatto, ma per altri non è così. Alcune storie sono governate da puntini sospensivi che, più passa il tempo, è più appare ardito riuscire a cancellare, ma tale condizione non impedisce di cucire un eventuale epilogo.
Se a farlo, inoltre, sono le mani di due osservatori d’eccezione della storia, allora la lettura del “ricamo” diventa appassionante; diventa un abbeveratoio nel deserto di risposte all’assenza di quel segno di interpunzione. Il giallo di via Poma – Trent’anni senza giustizia, trent’anni senza un colpevole ( Newton Compton Editori, 2020) prende il via dalle pagine di una triste tragedia italiana che nell’agosto del 1990, lasciò sul pavimento di un ufficio di via Poma, a Roma, il cadavere insanguinato da ventinove coltellate, della giovanissima Simonetta Cesaroni.
Massimo Lugli e Antonio Del Greco, gli autori del romanzo, l’uno ex-inviato speciale di Repubblica che seguì da cronista le indagini, l’altro allora funzionario della Squadra Mobile che le diresse, ricostruiscono, con nomi di fantasia e con intrecci romanzati, le svolte e le dinamiche di una complessa inchiesta, chiarendo – tra diversi – un aspetto non si può giudicare un’indagine condotta con i mezzi e le procedure di trent’anni fa con il metro di oggi, come qualcuno continua a fare.
Le pagine di questo romanzo, avvincente, dal ritmo serrato, che nella sua fantasia ricostruisce uno spaccato di autenticità pura, grazie anche alla restituzione delle atmosfere coeve – ad esempio quella della vita di redazione – attraverso l’uso di un linguaggio realistico, catapultano il lettore in un racconto mixato di concretezza e pura immaginazione delle tappe di un’indagine vissuta dai rispettivi punti di vita: la Squadra Mobile e la stampa.
La Capitale afosa di quei tristi giorni di piena estate del 1990, la concitazione dell’opinione pubblica, del giornalismo aggrappato ad un “pezzo” sconcertante di cui tutti volevano conoscere dettagli come anticamera della risoluzione. Le indagini, i particolari, le testimonianze. Tutto è restituito bene nel libro di Luglio e Del Greco: il clima di quelle ore, divenute giorni, poi mesi e adesso anni.
Anni che non sono bastati a dare un nome ed un volto a chi quel pomeriggio tolse il respiro ad una ventenne dalla vita assolutamente priva di ombre, né tanto meno un perché; né il romanzo lo fa al posto della realtà. Il finale del libro, infatti, come hanno ritenuto bene specificare anche in conclusione gli stessi autori è di pura fantasia. E’ solo un colpo di scena narrativo – avvincente quanto irreale – che ben sottolinea come su quei puntini sospensivi possa ancora galoppare la “fantasia” dell’irrisoluto.
In effetti, potremmo dire che questa si potrebbe delineare come la rivendicazione narrativa alla memoria della giovane, nei confronti della cui famiglia i due autori hanno scelto di esprimere tutto il loro affetto e la loro solidarietà.