Un “diario di bordo” tra i mari che bagnano il profilo dei continenti e i fari che avevano il compito di illuminare le rotte dei marinai. Luoghi apparentemente solo fisici, descritti in maniera realistica e poetica dal giornalista e scrittore Paolo Rumiz nel romanzo “Il Ciclope” ( Universale economica Feltrinelli – 2018), ma che nella lettura prendono forma immaginifica e trascendentale, luoghi del sentire umano dai quali emerge che “gli arcipelaghi dell’anima sono infinitamente più misteriosi e complicati di quelli reali”.
Il protagonista è così in un luogo isolato, immerso tra la profondità dell’orizzonte, nella vastità del mare e l’infinità del cielo, in cui domina un faro decisivo per i viaggi che legano l’Oriente e l’Occidente. Lì convive con il guardiano del faro, con gli animali del posto, di cui assorbe abitudini, sentimenti e osserva i reverenziali atteggiamenti rispettosi dell’ambiente, ma non in maniera meramente formale, ma in una sostanza rituale. E’ per questo che la narrazione si spinge a leggere di un faro che sembra fondersi con il passato mitologico, con il suo Ciclope, il faro, che con una luce piccina moltiplicata da prismi eccezionali, veglia la notte e crea tempeste emotive.
“Il ciclope” è sin da subito un affascinante viaggio sul posto, il cui ritmo è scandito da un tempo percepito dai sensi affinati, fino quasi a primordiali capacità animalesche, e dal recupero della memoria che giganteggia e torna impetuosa nel silenzio. I venti e le loro direzioni, caratteristiche decidono anche la tempra delle giornate e l’orientamento dei pensieri.
“In un luogo così esposto agli elementi, il meteo è decisivo. E questo non solo perchè è un grande riassunto dello stato dell’universo, ma perchè ti denuda, evoca valanghe di visioni e sveglia la macchina di pensieri che dorme in te per troppa vita sedentaria. […] Su un’isola, il vento cambia la tua vita e le tue abitudini anche in casa, perchè ongi muro è esposto a venti diversi”.
Il giorno e la notte si fondono in una dinamica di interiorizzazione per la quale non si potrebbe prescindere né dall’una né dall’altra: “i luoghi si visitano di giorno, ma si capiscono, anzi si sentono, solo la notte”.
In questo moto ondoso di consapevolezza l’uomo somiglia progressivamente all’isola di un faro. Tenacemente e solidamente solo nel cuore di una Terra dalla quale è accerchiato. Solo, eppur ricco negli occhi, nel cuore di quanto la natura gli apre dinanzi. Solo, pieno di viaggi, attimi, persone che rincorre con la mente e dalle quali, nei momenti più immersi in se stesso, tendenzialmente, rifugge. L’avventura più grande resta la propria interiorità è tutte le contraddizione che come un’isola custodisce la più profonda intimità di ognuno.
“Le piccole isole offrono tempeste di contraddizioni. Le cerchi per scappare dal mondo, e il meteo ti sbatte al centro di un universo senza pace”.
Forse perchè ogni uomo è un’isola o, probabilmente ancora di più, perchè risponde al viaggio più entusiasmante, che Rumiz non fanno cenno alla località da cui parte il suo “diario di bordo”.
“Dovrei darvi le coordinate, latitudine e longitudine. Ma non lo farò. Non vi dirò nemmeno la nazione a cui appartiene, perchè detesto le nazioni e il mare non ha frontiere”. Perdetevi cercando il vostro “Ciclope” sembra suggerire Rumiz, per immergervi nel vostro viaggio, perchè non sia mai accecato quell’unico occhio che consente di guardare sempre oltre qualsiasi apparente limite razionalmente imposto, perchè nell’armonia della natura c’è già il ritmo di ogni vita, c’è già posto per ogni essere, basta trovarlo. Basta trovarsi.