Nella contemporaneità l’usualità della parola “crisi” sembra inarrestabile. C’è sempre una “crisi” in atto e – quasi certamente – una alle porte; una crisi da additare, da studiare, da analizzare, da osservare attentamente, a volte anche da prevenire e – logica vorrebbe – da almeno provare a risolvere. Ciò che è ancora più lampante, però, è che per quanto si sia dilagantemente bravi ad individuare queste “fratture”, che siano esse economiche, politiche, culturali, morali, etc., spesso non si riesca ad andare oltre. Nonostante la collocazione a cuore di ragionamenti, dialoghi e confronti che mettono in luce la profondità – o la superficialità, basti pensare a certe pagine social, specchio sociale della spasmodica voglia di dire oltre ogni competenza – di analisi, difficilmente si percepisce il passo avanti: la risposta.
Leggendo fin qui vi starete chiedendo dove voglia andare a parare e, allora, comincio dal nome: Adriano Olivetti.
Siamo al cospetto di un legittimo periodo di domande, interrogativi che giustamente tutti si sentono di sollevare e guai a non farlo, ma quelle che sembrano venire meno – quanto meno a mio modesto avviso e, mi si consenta, a molti livelli – sono le risposte. Una in particolare, quella alla domanda: dove? Sì, intendo dire, dove andare, verso quale meta, a quale scopo. Che ci siano tanti esperti in grado di indicare il come, il perché e – forse- anche il quando, alla luce delle grandi capacità di analisi di cui sopra, sembra chiaro, ma la direzione? Questa è chiara a qualcuno?
Leggere Le fabbriche di bene (Edizioni di Comunità, 2019), Ai Lavoratori (Edizioni di Comunità, 2019) e Il cammino della Comunità (Edizioni di Comunità, 2019), tutti a fima del celebre imprenditore, intellettuale e politico del Novecento Adriano Olivetti, mi ha fatto – in primis – pensare a tutto questo. Il perché è presto detto. Ciò che colpisce del progetto – soprattutto in un momento storico come l’attuale – non è tanto nel merito del progetto stesso, di cui comunque non si abbiano a contraddire gli intenti nobili nei confronti dei lavoratori, ma è il suo essere in quanto tale una risposta, in un dopoguerra – il secondo – in cui tutto era in crisi, tutto meritava di essere ripensato. Quella di Olivetti , insomma, era una risposta chiara ad una domanda vera, ad una realtà crudelemente messa alla prova da due conflitti mondiali.
“Cos’è questa fabbrica comunitaria? E’ un luogo dove c’è giustizia e domina il progresso, dove si fa luce la bellezza, e l’amore, la carità e la tolleranza sono nomi e voci non prive di senso”.
Quella che si legge di Olivetti è una rivoluzione comunitaria, ma prima ancora una risposta, un disegno a tratti percepito anche come utopico, ma che diede dei frutti importanti, anche numericamente, rispetto alle macchine prodotte e vendute, ma – soprattutto – per quanto concerne operai assunti, stabilimenti aperti e sviluppo degli stessi nella direzione della cultura come icona di bellezza.
“Abbiamo portato in tutti i villaggi le nostre armi segrete: i libri, i corsi, le opere dell’ingengo e dell’arte. Noi crediamo nella virtù rivoluzionaria della cultura che dona all’uomo il suo vero potere”.
Aldilà della personale condivisione del concetto di bellezza, l’ispirazione che si può trarre dalla lettura delle parole di un “visionario” come Adriano Olivetti è la volontà – anzi oserei dire l’urgenza – di trovare delle risposte incuneate di lungimiranza.
(Foto di copertina dal sito della Fondazione Olivetti)