Sulla scia della “Giornata internazionale contro la violenza sulle donne” non potevo non scegliere un libro che considero “femminile”, la cui stesura nasce dalle mani gentili di Julie Otsuka, in cui la storia vive con le vite straordinarie di donne partite dal Giappone per andare in sposa agli immigrati connazionali in America. “Venivamo tutte per mare”, edito “Bollati Boringhieri” e mi chiedo da dove altro potrebbero mai venire le donne se non dall’acqua, l’elemento che tutto nutre e tutto purifica. L’acqua che è inizio di qualsiasi trama, come nell’incidente primordiale all’inizio dell’universo. L’acqua raccolta nell’unico grade abbraccio del mare.
Tante donne, tutte donne viaggiavano verso una terra promessa di speranze, di futuro, e la loro diventa la storia di tutte, come un’unica voce di febbricitante attesa e devastante incontro con la realtà. Salite a bordo della nave che le dondurrà a San Francisco è come se salissero a bordo della loro esistenza e, abbandonato il loro passato, la loro famiglia d’origine, si trovano a fare i conti con un avvenire condiviso, mentre stringono i pugni tra entusiasmi, aspettattive e paura in un imbarcazione super affollata in cui si aggirano come anime ignare. Si scambiano fotografie dei loro mariti sconosciuti, immaginando l’incertezza che le accoglierà.
“Sulla nave, per prima cosa, prima di decidere chi ci piaceva e chi no, prima di raccontarci a vicenda da quale isola venivamo e perché eravamo partite, e anche prima di impegnarci a imparare i nomi delle altre, confrontammo le fotografie dei nostri mariti […] Sulla nave ci chiedevamo spesso: ci piaceranno? Li ameremo? Li riconosceremo dalle foto, quando li vedremo per la prima volta sul molo”.
Domande frutto di una passività che punge il cuore di chi gode della libertà della contemporaneità. Domande che non hanno meno peso specifico di qualsiasi altra violenza. Eppure era una consuetudine prendere marito per procura: scegliere un compagno con cui camminare fino alla fine dei giorni, con cui fare l’amore la prima volta senza probabilmente avere minimamente l’idea di cosa aspettarsi, mangari ritrovandosi subito il ventre gonfio dopo qualche mese. A tutto questo una terra sconosciuta, una lingua da impare, il terrore del parto.
E’ difficile pensare alla paura di non riuscire ad essere compresi. Di non conoscere la lingua che ci permetterebbe di vivere la quotidinità, di superare distanze e differenze. Non è forse questo isolamento indotto violento? Il tutto con la guerra che impazza. per questi e tanti motivi, nel petto e dietro le spalle, sullo scenario la seconda guerra mondiale, l’attacco di Pearl Harbour e la decisione di Franklin D. Roosevelt di considerare i cittadini americani di origine giapponese come potenziali nemici. La Otsuko in un ritmo andante tratteggia ogni piega di quest’origamo letterario, che fin da subito coinvolge il lettore in un viaggio, tutto sommato, di non molte pagine, ma con l’intensità di un volume abitato da centinaia di personaggi, protagonisti. Forse, un intero popolo. Di immigrati, vittime del razzismo, dell’atavicità di certi retaggi culturali, di alcuni pregiudizi, ma allo stesso tempo di grande tempra e coraggio.
Le donne di Otsuka, secondo me, sono un valore aggiunto alle conquiste che vantiamo nel mondo. Ai piccoli passi che, ogni giorno, una donna compie calpestando la faccia dalla terra, perchè nell’acqua, lì da dove vengono, lì abbiamo galleggiato tutti allo stesso modo, fin da sempre, fin da subito. Nell’acqua siamo tutti uguali e sulla terra ferma che alcune donne fanno la differenza per forza, coraggio, caparbietà. Esattamente come le donne chedicono: “Venivamo tutte per mare” di Julie Otsuko.